Questa microstoria si ispira a un gruppo scultoreo di Gustav Vigeland. Non è un dialogo ma un racconto a pensieri simultanei. Un tentativo di rendere l'immobilità, l'incomunicabilità e il senso di isolamento che ne deriva.
Non ride oggi. Non mi guarda nemmeno. Deve essere successo qualcosa: è da questa mattina che sta zitto. Forse ha dei problemi. Questo ragazzo, non dice mai nulla! Che gli servano soldi? Mi sforzo, mi accuccio accanto a lui. Devo per forza appoggiarmi al suo corpo: le mie ginocchia non mi aiutano più.
Si aggrappa a me con quel suo braccio molliccio, la mano sulla mia spalla. È un peso pieno, che preme contro il mio fianco, contro la coscia. Sento il suo respiro sul collo. E io non riesco a guardarla. Non oggi. Me ne rimango seduto qui, il gomito puntato sul ginocchio, la mano a coprirmi la bocca, le dita curve intorno alle labbra, come se mi stessi tappando la bocca. Ho gli occhi piantati fuori dalla finestra, sul parco, dove le persone camminano, parlano, ridono. Oggi è quel giorno. Il giorno in cui vorrei dire basta, uscire, respirare, sparire. In questo ordine esatto. Alzarmi, andarmene, lasciare tutto.
Perché non esce mai? Perché non si fa una vita? Non riesco a spiegarmelo. Non deve mica restare sempre qui con me. Non sono sempre ammalata, io. Se avesse una ragazza, forse. Se avesse amici, qualcuno. Ma no: lui è qui. Sempre qui.
Promessa a mia madre, due minuti prima che morisse: “mi prendo cura io di lei, non ti preoccupare, mamma: me ne occupo io.” Ma cosa credevo di fare? Era inverno, buio, la stanza tremolava di luci al neon e odore di disinfettanti. La sua mano era minuscola, senza più forza. Non sapevo ancora che sarebbe stato per sempre. Non sapevo ancora cosa volesse dire “per sempre”.
Lei non sa, non lo sa che ho rinunciato al lavoro che volevo, alla vita così come l’immaginavo allora, a Margherita, alle sere fuori. Prima il biglietto del concerto appeso al frigorifero. Poi la borsa da weekend riposta in cima all’armadio. Poi il cellulare quasi muto. Poi Margherita, con la sua voglia di vivere. Ho lasciato andare tutto, una cosa dopo l’altra, senza nemmeno accorgermene. E oggi, oggi è quel giorno in cui annaspo sott’acqua, il cuore mi rimbomba nelle orecchie, i polmoni bruciano, e con le braccia tento di scalare l’acqua dal di dentro ma, invece, mi ritrovo seduto sul fondale.
Era così vivace, da bambino. Rideva sempre. Quando lo scorazzavo in bicicletta, si stringeva a me e sembrava non avere più paura di nulla. E ora sta qui, rinchiuso, arrabbiato, duro. Senti com’è teso sotto il mio braccio, come trattiene il respiro, come fatica a stare seduto. Che stia male? Non posso obbligarlo a parlare. Come glielo faccio capire?
Non è colpa sua. Non lo è mai stata. Non è lei che mi tiene qui. Sono io. Sono io che mi ci sono messo, io che ho stretto il nodo. Mi manca, lei. Mi manca quella ragazza bellissima che mi portava per mano, che mi caricava in bicicletta, che mi faceva ridere, che sapeva proteggermi.
Come quando era bambino e gli passavo la mano sul braccio.
E oggi, oggi me la sento addosso come un parassita. E fa male, pensarla così. Fa male sentirla appoggiata e non riuscire ad abbracciarla, a dirle: sono qui per te.
Se andassi via io? Se lo lasciassi solo? Forse si spaventerebbe, all’inizio. Ma poi, poi imparerebbe. Tornerebbe al suo vecchio lavoro, quello per cui ha tanto studiato, ai suoi amici, troverebbe una ragazza. E io potrei trasferirmi da Ines, c’ha il medico sulle scale. Ma che dolore, abbandonarlo. Me lo immagino qui, solo, seduto in questa casa vuota, a cercarmi con lo sguardo e non trovarmi, senza più il suo punto di riferimento.
Non sono arrabbiato con lei. Non lo sono mai stato. Non sono arrabbiato nemmeno per la promessa fatta a nostra madre. Sono io. Sono io che non so immaginarmi diverso, che non so smettere di essere quello che si è messo in mezzo, che ha fermato tutto. Non so più chi sarei senza questo ruolo, senza questa presenza continua. È come se il mio nome si fosse attaccato al suo, come se non esistessimo più separati. E mi risuona in testa: “tanto c’è Zaccaria.” Peccato che non sia lei a dirlo, ma io a pensarlo. E Zaccaria sono io.
Vorrei che mi parlasse. Che mi dicesse cos’ha. Che si aprisse, solo un po’. Che mi guardasse e mi dicesse: oggi non ce la faccio. Come quando studiava. “Oggi non ce la faccio, Mena”, ripeteva. Solo questo. Ma non lo fa più. Non lo fa mai. E io resto qui, appoggiata a lui, sperando che basti, che senta almeno questo: qualunque cosa accada, io ci sono.
Basta arrivare a domani. Basta resistere fino a domani, quando riuscirò a guardarla di nuovo, darle un bacio, aiutarla ad alzarsi dalla sedia. Quando sarò di nuovo io, quello che regge l’equilibrio, quello che non crolla. Ma oggi no. Oggi mi manca tutto della vita. Stringo i denti. Non la posso lasciare.
Mi stringo a lui. Prima o poi, lo perderò.
Marzia Vianello
Ho letto il racconto e sicuramente più tardi lo rileggerò e poi ancora, e il mio respiro per non disturbare è rimasto un po' sospeso come quando ti immergi in un lago scuro e vai in apnea.
Questa volta non ero in quella stanza perché ne ho sempre paura ma dietro a un vetro che mi proteggeva, ad osservare la scena.
Grazie per l'intensità. Non ho visto molto immersa in quel lago dalle acque scure ma ho sentito il battito forte del mio cuore.
L' immobilismo è dentro ogni frase. Tutto è statico e immutabile. Brava! (Nella sesta frase: un refuso)