Tanti piccoli materassi. Ecco cosa mi sembrano. Materassi di camelie bianche. La chiamano Montagna delle Nuvole, ma non è nemmeno tanto alta. Io la chiamerei piuttosto collina.
Abbiamo lasciato il villaggio da qualche ora. Legno scuro. Tegole sbilenche. Fili elettrici scoperti. Strade acciottolate. Nessun piano regolatore. Le case sono addossate l’una all’altra. Alcune hanno un’insegna, ma non sai mai, quando entri, se ci trovi una bottega o solo un tizio che ti fissa mentre mastica un seme di girasole.
E come li convinco, a evacuare, in caso di necessità? Il fiume è una presenza pesante, lenta, che può trasformarsi in fango in poco tempo. Per non parlare dei terremoti. Una risposta potrei trovarla nello studio dei loro sorrisi. Già. Quei sorrisi che partono dagli occhi e, piano, invadono tutto il viso fino a contagiare chi hanno di fronte.
C’è un solo modo per uscire dal villaggio: un ponte a catena, assi squinternate, giunti ossidati, due archi di pietra con i tetti curvati all’insù.
“La vedi quella?” dice Diogo, tagliando corto il mio pensiero. “È la Catena che Spezza l’Orizzonte.”
Indica verso nord-ovest. Apro la mappa. Il GPS non ha lo stesso fascino. E magari una carta scadente nemmeno la riporta, la Catena che Spezza l’Orizzonte. Ma la Montagna delle Nuvole, sì. C’è sempre, annotata con cura su ogni carta topografica, geografica o escursionistica mai stampata.
“Ma perché la chiamano così?”
“Per i fiori, Allegra. Le camelie. Non sembrano anche a te delle nuvole?”
Mi fermo di colpo. Nuvole? A me sembrano piccoli materassi. Posso mica dirglielo. No, no.
Sante?, sono io. Dove sei?
Nel caveau del Victoria and Albert Museum.
E che ci fai lì?
Un dipinto.
Io sono sulla montagna dei materassi.
E ci stai comoda?
Non posso, non posso, Diogo non può capirle, queste cose, certo che no. E poi, non sono una stupida: so che, questo, è un luogo leggendario, ma non avevo collegato il suo nome agli ammassi di camelie. Forse perché, poco prima della vetta, cedono il passo ai cespugli di rododendro e di canfora. Già, canfora. Qui, sto scoprendo cose strane eh. Io la uso per preservare le ali delle farfalle che ho nelle teche. Ma un cespuglio di canfora? Non solo non l’ho mai visto prima, ma non ci ho mai nemmeno pensato. E invece eccolo qui, con le sue foglie croccanti, le bacche rosse e i piccoli fiori bianco crema. Resta da capire come se ne estrae la canfora, a questo punto. È diventata una questione di principio.
Mi sono distratta. Colpa della canfora sulla montacollina dei manuvolassi. Che poi, a volerla dire tutta, questa Montagna delle Nuvole non è granché: né alta, né sacra e la sua sommità è solo una pietra rotonda, allungata a losanga da est a ovest.
“Lo sai che qui, circa cent’anni fa,” mi interrompe Diogo che, a quanto pare, non ha altro a cui pensare, “sono arrivati dei botanici inglesi per cercare l’esemplare di una pianta chiamata albero delle colombe?”
Ah, ma allora è una mania, questa dei nomi!
Sante?, sono sempre io.
Dimmi.
Sei ancora nel caveau?
Sì, che c'è ora?
Qui, da qualche parte, c'è anche l'albero delle colombe.
Non ti preoccupare, Allegra, non sono colombe, sono fazzoletti.
Guardo la mappa. Guardo le montagne. È ovvio: le catene montuose alle spalle della Montagna delle Nuvole e dei Monti Yunling non hanno nulla di accidentale. Un blocco solido, compatto, disposto con un ordine preciso. Le altezze, i profili netti. Linee inclinate che sembrano rispondere a un unico principio: scendere. I versanti slittano verso il basso, le valli si allungano, i corsi d’acqua prendono velocità. Lo Yangtze, che vedo. Il Mekong, che non vedo ma so dov’è: qualche decina di chilometri a ovest. Tutti puntano a sud. E il sud, come sempre, si spalanca.
Ogni tratto geografico, qui, segue un asse netto. Nord-Sud. Tutto. Tranne i Monti Yunling. Una dissonanza. Una linea che contraddice l’andamento. Esattamente di traverso. Lo Yangtze viene giù impetuoso dalla sorgente per millecinquecento chilometri e poi, qui a Shigu, si trova davanti la piccola Montagna delle Nuvole e ci si schianta contro.
Il pomeriggio, ora, vira piano verso sera. Il fiume arriva sotto di me, deciso. Viene da sinistra, sbatte contro la parete dell’altura, rimbalza e, per un istante, si arresta.
Ricaccio l’aria nei polmoni. Resto in apnea.
Il fiume indugia, ribolle in vortici e sottocorrenti, poi, di colpo, forma una stretta curva a U che lo risospinge a nord, più potente di prima. Rotta invertita.
Respiro.
Il cielo si è fatto bruno. Non saprei nemmeno dire che ora è. Una folata di vento, improvvisa e tiepida, mi strappa la mappa di mano. Dal bordo esterno della Montagna delle Nuvole, d’istinto, mi allungo per afferrarla. Diogo mi afferra per le spalle, una presa rapida, decisa, per non farmi cadere. Mi trattiene anche per lo sguardo, lui. La mappa vola lontano. In questo luogo nulla è a posto. La terra è possente, così come lo è Diogo. Lo sento solo ora. Me ne accorgo solo ora. C’è qualcosa, in questa sua presa. Qualcosa che attraversa lui e ora me. Qualcosa che assomiglia troppo alla rabbia.
Marzia Vianello
Nota dell’autrice
L’opera che accompagna questo testo è di Gao Xingjian, dalla serie Soul Mountain.
Non l’ho scelta per illustrare ma per affiancare. Come i manuvolassi, tiene insieme ciò che non combacia: vertigine e materia, distanza e impronta. La figura al centro sta, come Allegra, dentro un paesaggio che è anche pensiero.